10-02-2017 | di COOPI
Bambini in guerra, bambini in carcere
Salim* è un ragazzo nigeriano che al momento del suo arresto aveva 16 anni. Suo padre è deceduto quando lui aveva 4 anni ed è fuggito dalla Nigeria con sua madre per salvarsi dagli attacchi di Boko Haram. Spera di trovare un po' di serenità all'interno del campo rifugiati di Sayam Forage, nella regione di Diffa (Niger), ma una sera viene arrestato dalla polizia nigerina mentre girovaga nel campo con altri suoi coetanei e accusato di essere un infiltrato di Boko Haram. La sua vita cambia da quel momento: viene portato nella prigione civile di Niamey e rinchiuso nella parte del carcere riservata ai minori, dove risiede tutt'ora. Non ha notizie di sua mamma per più di 9 mesi, fino a quando un altro ragazzo, proveniente dalla Nigeria e residente precedentemente nello stesso campo profughi, lo aiuta a mettersi nuovamente in contatto con lei.
Chi sono i bambini soldato
I bambini e gli adolescenti usati nelle guerre sono sopravvissuti ai massacri delle loro famiglie o addirittura rapiti dai loro villaggi. Vengono usati come scudi umani, spie e utilizzati per il trasporto dei rifornimenti o per combattere. In questo dramma sono coinvolte anche moltissime bambine, spesso abusate e rese schiave sessuali. In molti casi sono costretti ad assumere droghe per renderli sottomessi.
Il 12 febbraio la Giornata internazionale contro l'uso dei bambini soldato ricorda il giorno in cui nel 2002 è entrato in vigore il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dell'infanzia sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Non sono solo adolescenti, ma anche bambini di non più di 6 anni. L'ONU ne calcola circa 250.000, ma le ONG parlano di oltre 300.000, di cui il 40% di sesso femminile.
Esperienza diretta
Nella regione di Diffa, COOPI interviene con un progetto finanziato dall'UNICEF per prevenire e rispondere alle violenze contro i bambini colpiti dai conflitti in questa zona. Abbiamo chiesto a Barbara Pellegrini, incaricata progetti migrazioni e giustizia in Niger, di illustrarci la situazione inerente la presa in carico dei bambini in stato di detenzione nel carcere di Niamey, sezione minorile.
Il suo racconto ci parla di 72 ragazzi coinvolti nel progetto, tra loro c'è una sola ragazza. Quando sono stati arrestati avevano tra i 14 e i 17 anni, ora la maggior parte sono maggiorenni. "Tutti sono sospettati di essere associati a forze o gruppi armati (in particolare a Boko Haram), ma non c'é mai stata una sentenza definitiva a riguardo, spiega Barbara Pellegrini, nella nostra esperienza, una minoranza ha avuto a che fare direttamente con Boko Haram. Una parte di loro ha deciso di partecipare dopo aver ricevuto un compenso (o a seguito di un compenso per la famiglia), mentre altri sono stati rapiti".
La vita all'interno del centro di detenzione non è semplice per via delle precarie condizioni igieniche, per lo spazio limitato rispetto al numero dei bambini, per la mancanza della loro famiglia e per l'incertezza per il loro futuro.
COOPI all'interno del carcere
I ragazzi presenti in carcere da luglio 2015 ricevono supporto psicosociale, attraverso:
- interviste individuali con uno psicologo,
- gruppi di parola, di ascolto e condivisione in cui circa 10 ragazzi per volta raccontano le loro esperienze, le mozioni provate e le risorse a loro disposizione per andare avanti,
- diverse attività ludico-ricreative e sportive, per avere un momento di svago durante la giornata.
"Da gennaio 2017, dopo quasi due anni dalla loro incarcerazione, è iniziato il processo di liberazione. 11 bambini sono stati già liberati e trasferiti in un centro di transito e orientamento gestito da UNICEF, dove passeranno un periodo di massimo 3 mesi prima di poter essere reinseriti nelle loro famiglie. Nel frattempo, conclude Barbara, UNICEF e COOPI inizieranno la settimana prossima il processo di accompagnamento e preparazione delle famiglie al ritorno dei ragazzi, attraverso il supporto di diversi psicologi, per assicurarsi che le famiglie siano pronte a riaccogliere i bambini dopo questi due anni di attesa ed incertezza e per limitare il rischio di stigmatizzazione dei bambini da parte delle loro comunità".
*nome di fantasia